I punti fondamentali del buddismo

 Dedicato a coloro i quali temono che la via sia difficile da percorrere o da comprendere, che richieda molti studi e doti d’intelletto superiori alle loro forze.

Risulterà Invece evidente che l’unica cosa necessaria è alla portata di tutti gli uomini, è la buona volontà, tutto il resto viene da sé. Quanto è qui enunciato è la base di ogni via spirituale, qualunque etichetta gli venga appiccicata.

Estratto da “Il Cuore dell’Albero della Bodhi” Discorsi di Buddhadasa al Buddha-dhamma Study Club dell’ospedale della clinica universitaria di Siriraj a Bangkok.

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Tratterò dei punti fondamentali che riassumono direttamente i principi del Dhamma (la verità di natura) mi auguro che l’esposizione dei punti fondamentali del buddismo possa favorire un progresso ad ampio raggio nel vostro studio e nella vostra pratica. Senza comprendere questi punti, si rischia troppa confusione.

Avere la sensazione che ci sono troppe cose da sapere e che saranno sempre di più, impossibili da ricordare, capire e mettere in pratica è un’ottica fallimentare, perché alimenta lo scoraggiamento e rende il vostro impegno sempre meno focalizzato e preciso. Rischiamo di caricarci sulle spalle una massa di conoscenze così voluminosa che diventa difficile capirle e metterli in pratica.

I punti fondamentali del Dhamma non sono tanti, il Buddha paragona all’insegnamento a “un’unica manciata”. Un passo d Sanyutta nikâya ci aiuterà a capire. Camminando nella foresta, il Buddha raccolse una manciata di foglie e chiese ai monaci quali fossero in numero maggiore se le foglie tenute nel pugno o le foglie della foresta.

La risposta fu ovviamente le foglie della foresta, senza possibilità di paragone. Invito i presenti a raffigurarsi la scena. Percepite la grande disparità di numero. Il Buddha spiegò che le cose da lui conosciute e comprese si potevano paragonare al numero delle foglie della foresta, ma tutto ciò che è necessario sapere e praticare si riduce alla manciata che tenevano il pugno.

Il paragone alle miriadi di cose reperibili nel mondo, ciò che occorre fare per estinguere il dukkha (dolore, sofferenza) si riduce a una manciata di foglie. Dovremmo essere lieti di udire che si tratta di un’unica manciata, non di una quantità sterminata. Niente che vada al di là della nostra portata e della nostra capacità di comprensione.

Questo è il primo punto importante per la retta comprensione dell’insegnamento del Buddha.

Perché un punto si possa definire un fondamento del buddismo, deve rispondere a due requisiti. Primo, tendere all’estinzione di dukkha. Secondo, possedere una coerenza interna sperimentabile direttamente, senza dover ricorrere alla fede in un’altra persona. Sono due requisiti imprescindibili.

Chiediamoci: è reale dukkha? C’è modo di estinguerlo? Domande a cui Buddha ha risposto. Chi ascolta è in condizione di riconoscere la veridicità di ogni sua parola senza dover ricorrere alla fede, approfondendole con sempre maggiore chiarezza fino a capire da sé. La comprensione che estingue dukkha è la comprensione definitiva.

L’insegnamento buddista ci comunica che non esiste alcuna persona, alcun sé, niente che appartenga a un sé. Il sé è semplicemente un’errata interpretazione della mente ignorante. Esistono soltanto processi naturali, fisici e mentali, un meccanismo per percepire elaborare e trasformare i dati sensoriali. Funzionando in modo errato, i principi naturali determinano illusione e irrealtà, facendoci percepire l’esistenza dell’io e di cose appartenenti all’io. Se invece funzionano correttamente, risultati del genere non si producono. C’è la consapevolezza e la saggezza originarie (sati paññâ), la chiara visione e il veritiero riconoscimento dell’esistenza di ogni io o mio.

Se non sappiamo discernere i punti essenziali, avremo l’impressione che siano troppi e non sapremo scegliere. È come entrare in un negozio tanto straripante di merci che non sappiamo cosa comprare. Cerchiamo di affidarci al buon senso, un pò di questo, un pò di quello, come ci sembra conveniente. Così finiamo per prendere quello che si adatta alle nostre contaminazioni (kilesa) invece di farci guidare dalla consapevolezza e dalla saggezza.

La via spirituale si trasforma in superstizione, in riti e cerimonie, in accumulazione meccanica dei meriti, e in difesa contro la paura. Tutto ciò non ha niente a che vedere con il vero buddismo.

Dobbiamo imparare a distinguere tra il vero buddismo e li aggiunte che sono state comprese sotto lo stesso nome. Anche all’interno degli insegnamenti, riconosciamo i punti fondamentali, i principi radice. Questo è l’argomento del mio discorso odierno.

Entrare in questo ospedale mi ha ricordato i passi dei commentari in cui il Buddha è chiamato il “medico spirituale”. I suoi insegnamenti e i commentari individuano una duplice natura della malattia fisica e mentale. Nei testi si parla di “malattie mentali”, non però nel senso odierno. L’espressione indica le corruzioni della comprensione (ditthi), cioè le contaminazioni e il desiderio.

Oggi invece si riferisce a turbe mentali di origine fisiologica o psichica. Per evitare che l’uso odierno ci svii dal vero senso dell’espressione “malattia dello spirito”, vorrei introdurre un terzo termine. Assumiamo tutte le malattie fisiche e mentali come partenti alla sfera fisica, e usiamo malattia spirituale nello stesso modo in cui veniva usato “malattia mentale” al tempo di Buddha.

“Spirituale” e “mentale” si applicano a campi estremamente diversi. Con “mentale” indichiamo la sfera psicofisica. Se soffriamo di una malattia mentale ricorriamo alla psichiatria, non è un problema di ordine spirituale.

Con “spirituale” non vogliamo riferirci a fantasmi o altre entità che si impossessano degli uomini, indichiamo quell’aspetto sottile della mente che è malato perché preda delle contaminazioni, specie dell’ignoranza e dell’errata comprensione. La mente dominata dall’ignoranza o dall’errata comprensione, soffre di “malattia spirituale”, vede in modo distorto. Una visione distorta alimenta un pensiero distorto, una parola distorta e un’azione distorta. La malattia è appunto qui, nel pensiero, nella parola e nell’azione distorti.

Considerate come, al giorno d’oggi, gli uomini non prestino alcuna attenzione alla malattia spirituale, col risultato che tutto peggiora, sia per l’individuo che per la società. Se tutti sono spiritualmente malati, il mondo stesso è malato, sofferente nella mente e nello spirito.

Invece di una pace durevole c’è un’eterna crisi. Per quanto facciamo e cerchiamo, non troviamo un solo momento di pace. È fiato sprecato parlare di pace durevole quando entrambi i contendenti sono malati spirituali, e creano dukkha per sé e per gli altri.

E come se nel mondo fosse apparsa una macchina per la produzione automatica del dukkha. Come potrà il mondo trovare la pace? La soluzione sta nella guarigione spirituale nel cuore degli uomini. Qual è la cura? C’è un antidoto? Sì, quella manciata di Dhamma.

Se non sappiamo di essere malati, non andiamo dal dottore e non ci curiamo. È ovvio i più non vedono la propria malattia e fanno collezione di medicine. Ascoltiamo il Dhamma, ne studiamo le virtù curative, senza capire che siamo noi i malati. Lo accettiamo solo per aggiungere una cosa in più a tutte le altre cose. Oppure per usarlo come argomento di discussione, quando non di disputa o di lite. Ecco perché il Dhamma non è lo strumento efficace di cura che potrebbe essere.

Spiegherò ora cos’è la malattia spirituale e come una sola manciata di Dhamma la possa curare. La malattia spirituale è quelli infermità i cui agenti patogeni sono l’io e il mio, il noi e il nostro, che operano di continuo nella mente. Il virus che alligna nella mente, si sviluppa prima nel senso dell’io-mio quindi, alimentato dall’egoismo, trova espressione come avidità, odio e illusione, con tutti i problemi che causano in noi e negli altri.

Questi sono i sintomi della malattia spirituale. Per comodità mnemonica, riferiamoci a essa come la malattia dell’io-mio.

Tutti soffriamo della malattia dell’io-mio. Ogni volta che vediamo una forma, udiamo un suono, percepiamo un odore o entriamo in contatto con un oggetto, ogni volta che pensiamo in modo ignorante, ci esponiamo all’assalto del virus. In altre parole assorbiamo virus, che ci infettano e alimentano la malattia, ogni volta che si produce il contatto sensoriale (phassa).

Il virus è l’attaccamento (upâdâna). Possiamo dividerlo in due categorie attaccamento all’io e attaccamento al mio. Attaccamento all’io (Ahamkâra) sta nel senso di essere un’entità distinta, questo o quell’individuo particolare. Mio (mamamkâra) è ciò che sento appartenermi, che amo, che voglio. Ciò che invece odio, diventa il mio nemico ecco il mio.

Ahamkâra e mamamkâra sono così pericolosi e velenosi che meritano la definizione di malattia spirituale. Tutte le filosofie e tutti damma del tempo del Buddha, tutti i seguaci dei vari credi, cercavano di eliminarli. La grande differenza stava nel fatto che, una volta eliminati ahamkâra e mamamkâra, ciò che restava era definito il vero se il puro atman, l’anima tanto anelata.

Il buddismo rifiutò queste attribuzioni perché non voleva creare altre forme di attaccamento. Considerò lo stato libero dell’io-mio come il perfetto vuoto, il Nibbâna. Nibbânam paramam suññam , il Nibbâna è il supremo vuoto.

Il Nibbâna è assoluta assenza di io-mio, sotto tutti i punti di vista, senza alcun residuo. Perciò il Nibbâna è la guarigione dalla malattia spirituale.

Il termine attâ indica ciò che in latino si chiama ego. La coscienza dell’io è definita egoismo in quanto non appena sorge il senso dell’io, segue inevitabilmente il senso del mio. Il senso dell’io e delle cose sentite come appartenenti all’io, insieme, costituiscono l’egoismo.

L’ego è visto come una componente naturale degli esseri viventi, il loro stesso centro. L’ego si potrebbe inoltre rendere come anima, corrispondente del greco kentron (centro). L’anima (attâ) è considerata infatti il centro dell’essere vivente, il nucleo imprescindibile. Le persone comuni non possono perciò sbarazzarsi nè prescindere dall’ego.

Ecco perché i non illuminati sperimentano senza tregua la dinamica dell’egoismo. Benché sia vero che non è continuamente in atto, si manifesta ogni volta che viene vista una forma, udito un suono, percepito un odore, o un contatto, ho pensato un pensiero.

In ogni manifestazione dell’io-mio possiamo vedere la globalità della malattia, indipendentemente dal contatto sensoriale che l’ha innescata. Avviene il contrario, nasce l’io-mio e la malattia imperversa. L’egocentrismo si è instaurato con prepotenza.

Dalla percezione dell’egoismo si passa quindi all’espressione dell’egocentrismo, uno stato perturbato che induce false comprensioni, un modello di pensiero incentrato su se stessi senza considerazione per gli altri. Ogni azione è riferita a se stessi. Siamo in balia dell’avidità, dell’odio e dell’illusione.

È il pericolo più grande per il mondo. Gli attuali problemi e il disordine del mondo sono dovuti all’egocentrismo degli individui e delle fazioni che danno vita a gruppi in conflitto. Il conflitto non viene da un effettivo desiderio di lotta ma dalla coazione dell’egocentrismo, perché non si sa controllarlo. Il mondo è contagiato dal virus della malattia perché nessuno ne conosce la cura, cioè il Cuore del Buddismo.

Vorrei che comprendesse l’espressione il Cuore del Buddismo.

Chi oggi conosce il cuore di buddismo? Quanti l’hanno realizzato? Alla domanda, alcuni risponderanno le Quattro Nobili Verità (ariya sacca), altri l’impermanenza, il carattere insoddisfacente e il non sè (aniccatâ dukkhatâ e anattatâ), altri potrebbero citare i versi

Sabe pâpassa akaranam Astenersi da male
Kusalassûpasampadâ Compiere il bene
Sacitta paryiodapanam Purificare la mente
Etam Buddhânasâsnam Questo è il cuore del Buddhismo

Risposte corrette ma superficiali. Riflettono ciò che si è imparato a memoria, non una genuina comprensione interiore. Io definirei il cuore del buddismo con la frase: niente a cui attaccarsi. Nel majjhima nikâya il Buddha viene avvicinato da un tale che gli domanda di riassumere l’insegnamento in un’unica frase. Il Buddha rispose: Sabe dhammâ malam abhinivesâya.

Sabe dhammâ significa “a tutte le cose”; malam “ non ci si dovrebbe”; abhinivesâya “attaccare”. Niente a cui attaccarsi. Il Buddha prosegui affermando che, chiunque ode questa frase, ode l’intero buddismo. Chiunque mette in pratica questa frase, mette in pratica l’intero buddismo, chiunque ne coglie i frutti, coglie i frutti dell’intero buddismo.

Comprendere che non c’è niente a cui attaccarsi significa eliminare i virus dell’avidità, dell’odio e dell’illusione, i virus che determinano l’errato comportamento di pensiero, parola e corpo. Ogni volta che forme, suoni, odori, gusti, contatti e fenomeni mentali premono per entrare, l’anticorpo “niente a cui attaccarsi” si opporrà egregiamente.

Il virus non troverà vie di accesso o, anche se entrasse, sarebbe immediatamente distrutto. Non può innescare il meccanismo della malattia perché impedito dall’anticorpo. Siamo immunizzati per sempre. Ecco il Cuore del Buddhismo e di tutto il Dhamma. Niente a cui attaccarsi. La comprensione di questa verità costituisce l’anticorpo che protegge dalla malattia spirituale. Diventa impossibile ricaderci. Al contrario, ignorando il Cuore del Buddismo siamo privi del pur minimo agente immunitario.

Ora conoscete la malattia spirituale e il medico che la può curare, ma solo sapendo di essere malati percepiamo la volontà di guarire e di applicare la cura giusta. Prima non sapevamo di essere malati, volevamo solo spassarcela. Eravamo come chi, inconsapevole di avere una malattia grave, il cancro o la TBC, non pensa che spassarsela e inizia a curarsi quando ormai è troppo tardi, e la malattia lo uccide.

Vediamo più da vicino come l’attaccamento rappresenti il virus, e come il virus alligni e sviluppi la malattia. Anche a una debole osservazione appare evidente che l’attaccamento all’io -mio è la contaminazione più nefasta. Le contaminazioni si possono dividere in avidità, odio e illusione (lobha, dosa, moha), si può riunirle in sedici categorie o altri modi ancora, ma alla fine, rientrano tutte nell’avidità, odio e illusione.

A loro volta, queste tre sono incluse in una sola il senso dell’io-mio. L’io-mio è il nucleo che deflagra nell’avidità, nell’odio e nell’illusione. Se prova attrazione per l’oggetto sensoriale con cui è venuto il contatto, si manifesta come avidità brama, desiderio (lobha). Se prova repulsione per l’oggetto, ecco l’odio (dosa). Se resta intorpidito e non sa quel che vuole, girando attorno all’oggetto senza poter stabilire se ne è attratto o respinto, ecco l’illusione (moha).

Benché si esprimano in modo diverso, le tre contaminazioni radicano nel senso del io-mio.

Si può dire che l’io mio è la maggiore delle contaminazioni e la causa radice di tutto il dukkha e di ogni malattia. Non avendo studiato o esaminato a fondo l’insegnamento del Buddha sul dukkha, lo abbiamo frainteso, dandogli il significato che nascita, vecchiaia e morte sono di per se stesse dukkha. In realtà non ne sono che i veicoli. Il Buddha compendia la sua spiegazione del dukkha nella sentenza; ”sankhittena pañcupâdâ-nakkhandhi-dkkhâ” in breve, i 5 aggregati dell’attaccamento (upâdâna) sono dukkha. I cinque aggregati o khandha, sono i componenti dell’essere umano.

Ciò significa che qualunque cosa che prova o suscita attaccamento come io-mio è dukkha. Qualunque cosa che non prova o non suscita attaccamento come io-mio è priva di dukkha. Perciò nascita, vecchiaia, malattia e morte, se non sono fonte di attaccamento come io-mio, non sono dukkha. Solo quando c’è attaccamento a esse come io-mio diventano dukkha

Ciò vale tanto per il corpo che per la mente. Non pensate che il dukkha sia connaturato al corpo mente. Corpo e mente diventano dukkha solo quando vi è l’attaccamento all’io-mio. Nel corpo mente puro e libero da contaminazioni, cioè nell’arahant, non c’è nessuna forma di dukkha.

Dobbiamo vedere che l’io-mio è la causa radice di tutte le forme di dukkha. Ogni volta che c’è attaccamento, ci sono le tenebre dell’ignoranza (avijjâ). Non c’è chiarezza, perché la mente non è vuota, è agitata, turbata ed eccitata dal senso dell’io-mio. All’opposto, la mente libera dall’attaccamento all’io-mio è vuota, serena e pacificata nella consapevolezza e nella saggezza (sati-paññâ).

Le due cose sono gli antipodi, vuoto e confusione. Una volta capito entrambe, la comprensione del Dhamma sarà estremamente facile.

Quando si è vuoti dall’io-mio si è ricolmi di tutte le qualità desiderabili dell’intero Tipitaka (le scritture buddiste). Quindi saranno presenti sati-sampajañña (consapevolezza e chiarezza comprensione), hiri (ritegno), ottappa (timore del male), khanti (pazienza e sopportazione) e soracca (mitezza). Si è pervasi di kataññû-katavedi (gratitudine), sacca (veridicità) e Jathâbhûta-ñâna-dassana (conoscenza e visione della realtà dei fenomeni), che permette la fruizione del sentiero e l’ottenimento del Nibbâna, perché queste virtù sono sempre Dhamma.

Possono essere un rifugio per il mondo. Bastano hiri e ottappa, il ritegno e il timore di fare del male, perché il mondo si plachi in una pace durevole.

Oggi gli uomini sembrano incalliti, senza timore né ritegno di fare il male. Compiono azioni scorrette, continuamente. Anche di fronte al fatto che il loro agire è dannoso al mondo intero, persistono. Il mondo va verso la distruzione, perché difetta persino di questa piccola virtù.

O prendiamo una virtù ancora più umile, la gratitudine (kataññû-katavedi). Basterebbe da sola a portare pace nel mondo. Dobbiamo riconoscere che tutti sono i benefattori di tutti gli altri. Non solo gli esseri umani, ma i gatti, i cani, i passeri. Se fossimo consapevoli del nostro debito di gratitudine verso tutti gli esseri, non potremmo far loro del male. Con un’unica virtù, la gratitudine, possiamo aiutare il mondo.


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